Dopo trenta anni dalla morte, lo scorso aprile, la sorella di Antonella Di Veroli, Carla, ha chiesto di riaprire il caso, spinta anche dal fatto che, negli ultimi anni, sono stati molti i cold case a tornare di nuovo alla ribalta e sui quali si è tornato ad indagare. "Secondo me è stata una cosa di interessi, una cosa di lavoro. Magari ha trovato qualche magagna, qualche cosa. Magari le hanno fatto firmare qualcosa che non era più che lecito. Lei se ne è accorta. E magari ha minacciato di denuncia", ha sottolineato più volte la sorella Carla. Lavorava da sola, ma collaborava spesso con Nardinocchi. "Non ho idea delle persone o delle aziende per cui lavorasse".
A parlare adesso un testimone, un uomo, all'epoca un ventiquattrenne, che si trovava sotto al palazzo, aveva una busta di plastica fra le mani. Con lui un'altra persona, all'epoca dei fatti minorenne. "Gli ho chiesto se avesse bisogno di aiuto, stava guardando i citofoni. Mi ha detto che stava aspettando qualcuno". Ma non era né Biffani né Nardinocchi. Ad oggi, non ha ancora un nome. Neanche 24 ore dopo le dichiarazioni in tribunale, l'arrivo delle minacce.
Oggi, però, sottoporre a nuovi esami il bossolo dell'arma da fuoco (che probabilmente porta ancora l'impronta del pollice dell'assassino), l'impronta rimasta sull'armadio e gli altri reperti rinvenuti il 10 aprile, come indumenti o tracce organiche, fra cui dei capelli, potrebbe portare alla verità.