E il 13 ottobre, alle 14.37, una telefonata insospettì le forze dell'ordine: "Sono Stefano - diceva qualcuno all'altro capo del filo - sono io quello che cercate". Il giorno dopo, lo stesso uomo richiamò e fornì un dettaglio che fece gelare il sangue agli uomini che indagavano sul caso: Stefano sostenne di aver provocato a Simone una bruciatura di sigaretta dietro l'orecchio sinistro e, guardando le foto del corpo del piccolo, si scoprì un'abrasione tondeggiante proprio in quel punto. Poi, il 17 ottobre, l'uomo richiamò e la polizia riuscì a rintracciare la telefonata: proveniva da un'agenzia immobiliare di Melzo, vicino a Milano. Lì ci lavorava un certo Stefano. La sera stessa gli inquirenti lo fermarono. L'uomo si autoaccusò dell'omicidio e confessò di essere il mostro. Ma le contraddizioni nei suoi racconti erano diverse e, in più, alcuni testimoni affermarono di aver trascorso con lui la giornata.
A scagionarlo del tutto ci pensò il vero mostro che, giovedì 22 ottobre, lasciò un altro biglietto, ritrovato nella cabina telefonica del piccolo aeroporto di Foligno. "Aiuto non riesco a fermarmi - lessero gli inquirenti - L'omicidio di Simone è stato un omicidio perfetto [...] analizziamo i fatti: 1) io sono ancora libero; 2) avete in mano un ragazzo che non ha nulla a che fare con l'omicidio; 3) non avete la mia voce registrata perché non ho effettuato nessuna telefonata. Quindi chi dice che ho telefonato al numero verde sbaglia; 4) le telecamere non mi hanno inquadrato durante il funerale, perché non ci sono andato". E aggiunge: "Siete fuori strada". Stefano allora non è il mostro che Foligno cerca da settimane. A quel punto l'uomo che si era autoaccusato dell'omicidio crollò e ammise di essersi inventato tutto.