Screenshot 2025 02 14 at 12 13 59 Domenico Nicitra figlio del boss Salvatore scomparso mentre andava a comprare un giocattolo Cold case Corriere.itIl piccolo Mimmo era stato promosso in prima media e lo zio Francesco, quella mattina del 21 giugno 1993, voleva onorare una promessa: portarlo in un negozio e comprargli un giocattolo a suo piacimento, persino una mountain bike, se avesse insistito, come premio perché era stato bravo a scuola. Partirono di buon mattino, prima delle 9, in sella a un motorino, ma non tornarono mai più. Inghiottiti nelle viscere più luride della città. Evaporati nella caldissima estate delle bombe di mafia a Roma e Milano, dopo essere usciti dalla villetta alla Giustiniana, dove il bambino viveva solo con la madre e con la sorellina, Rita, perché papà da un paio di mesi non si faceva vedere, «ma tornerà presto, cucciolo, non ti preoccupare», gli diceva mamma Andreina. Macché. Salvatore Nicitra, boss della banda della Magliana nativo di Palma di Montechiaro, in Sicilia, era in galera allora e ci sta tuttora. Negli ultimi giorni il quadro accusatorio contro il «re» delle slot machine si è consolidato dopo l’arresto di un anno fa, tanto che a «Totò», come lo chiamavano parigrado e sottopancia, è stato notificato un decreto di confisca di beni per 13 milioni di euro. Il giallo della scomparsa di suo figlio, però, non è mai stato risolto.

Domenico Nicitra detto Mimmo, 11 anni, e suo zio Francesco, 34 anni, pregiudicato, da quel giugno di 31 anni fa sono andati ad allungare la lista dei cold case degli anni Novanta (davia Poma alla commercialistamorta nell’armadio, dal detective freddato alla stazione Ostiense all’assicuratrice di via Due Ponti), e in particolare dei delitti eseguiti con metodo mafioso, la cosiddetta «lupara bianca». Stessa scia di violenza che nel luglio 1994 strappò alla sua famiglia un magistrato incorruttibile come Paolo Adinolfi, fatto sparire perché, da giudice del tribunale fallimentare, aveva osato colpire i sodalizi finanziari e criminali dell’epoca.

L’humus del giallo Nicitra è lo stesso: soldi, traffici illegali, malavita. Papà Salvatore era finito in carcere nel maggio 1993 nell’ambito della più importante retata raccontata dai cronisti romani del secondo dopoguerra, quell’«operazione Colosseo» scandita da un centinaio di arresti, che aveva sgominato la banda della Magliana, peraltro già ampiamente spopolata dalla catena di morti ammazzati, lasciati «a bocca sotto» sull’asfalto per vendette interne (qui, che fine hanno fatto i boss sopravvissuti). «Totò» era riuscito a scamparla.Amico dei capi veri, da Franco Giuseppucci detto «er Negro» (ammazzato nel 1980 a Trastevere) al «presidente» Renatino De Pedis (ucciso nel 1990 in pieno centro), Nicitra era diventato il «re» di Roma nord, punto di riferimento nella gestione di gioco d’azzardo, totonero, usura, estorsione, traffico di droga. La scomparsa di suo figlio, fin dal momento della denuncia, presentata il giorno dopo il mancato ritorno a casa, venne subito catalogata come un tipico e feroce regolamento di conti trasversale. Gli indizi erano scarsi: lo scooter fu trovato in una strada non lontano da casa, senza impronte digitali o altri segni utili alle indagini. Nessuna traccia neppure del promesso regalo, segno che zio e nipote erano stati caricati su una macchina, rapidamente e senza troppa violenza, visto che nessuno se ne era accorto, pochi minuti dopo aver lasciato l’abitazione.


Due le possibilità. Mamma Andreina si aggrappò a lungo alla prima pista presa in considerazione, quella di un duplice sequestro a scopo di ricatto, per evitare che suo marito facesse i nomi di complici o sodali non ancora individuati. La speranza era che, una volta completato l’iter giudiziario dell’«operazione Colosseo», gli ostaggi venissero liberati. Già all’epoca Salvatore Nicitra, per quanto si accontentasse di un appartamento non grande (due stanze, salone e doppi servizi) nella villetta di via Ascoli divisa con altri parenti, era titolare di un patrimonio pari a 15 miliardi di lire, prontamente bloccato dalla magistratura, in applicazione delle norme anti-sequestri. Ma non ve ne fu bisogno. In quell’estate 1993 nessun rapitore si fece avanti per chiedere un riscatto e con il passare dei mesi l’ipotesi del doppio omicidio seguito dalla distruzione dei cadaveri, legato a qualche «sgarro» o chiamata in correità, diventò una quasi certezza.

Tanto dolore e la sensazione, più volte gridata con rabbia, di essere vittima di «un sequestro di serie B», sottovalutato dagli inquirenti. Andreina Croci lanciò appelli strazianti, come quello tramite Radio dimensione suono a un anno dalla scomparsa: «A voi che avete mio figlio chiedo in ginocchio: lasciatelo andare, è un bambino di 12 anni, ha tanto bisogno di me e così io di lui. Vi prego, vi scongiuro, chiunque voi siate, lasciatelo tornare a casa, Mimmo non ha colpe...» Niente da fare: di quel bimbetto gentile, che tanti alla Giustiniana conoscevano per la sua timidezza, vinta solo quando si scatenava giocando a pallone sotto casa, non è probabilmente rimasto neanche un frammento. Né di lui né di suo zio. E neppure di suo nonno paterno, il padre di Salvatore Nicitra, vittima di lupara bianca nell’immediato dopoguerra, capostipite di una saga familiarelugubre e tremenda.