Due le possibilità. Mamma Andreina si aggrappò a lungo alla prima pista presa in considerazione, quella di un duplice sequestro a scopo di ricatto, per evitare che suo marito facesse i nomi di complici o sodali non ancora individuati. La speranza era che, una volta completato l’iter giudiziario dell’«operazione Colosseo», gli ostaggi venissero liberati. Già all’epoca Salvatore Nicitra, per quanto si accontentasse di un appartamento non grande (due stanze, salone e doppi servizi) nella villetta di via Ascoli divisa con altri parenti, era titolare di un patrimonio pari a 15 miliardi di lire, prontamente bloccato dalla magistratura, in applicazione delle norme anti-sequestri. Ma non ve ne fu bisogno. In quell’estate 1993 nessun rapitore si fece avanti per chiedere un riscatto e con il passare dei mesi l’ipotesi del doppio omicidio seguito dalla distruzione dei cadaveri, legato a qualche «sgarro» o chiamata in correità, diventò una quasi certezza.
Tanto dolore e la sensazione, più volte gridata con rabbia, di essere vittima di «un sequestro di serie B», sottovalutato dagli inquirenti. Andreina Croci lanciò appelli strazianti, come quello tramite Radio dimensione suono a un anno dalla scomparsa: «A voi che avete mio figlio chiedo in ginocchio: lasciatelo andare, è un bambino di 12 anni, ha tanto bisogno di me e così io di lui. Vi prego, vi scongiuro, chiunque voi siate, lasciatelo tornare a casa, Mimmo non ha colpe...» Niente da fare: di quel bimbetto gentile, che tanti alla Giustiniana conoscevano per la sua timidezza, vinta solo quando si scatenava giocando a pallone sotto casa, non è probabilmente rimasto neanche un frammento. Né di lui né di suo zio. E neppure di suo nonno paterno, il padre di Salvatore Nicitra, vittima di lupara bianca nell’immediato dopoguerra, capostipite di una saga familiarelugubre e tremenda.