L’inizio è mozzafiato. Da romanzo. Roma, 12 maggio 1977. Una ragazza cade colpita da un proiettile al centro di un incrocio, mentre scappa verso Trastevere. Dall’altra parte, sul ponte Garibaldi, sono attestate le forze dell’ordine. Lei si accascia. La soccorrono. Non c’è sangue né bossoli. Fermano un’auto. La portano in ospedale. Il medico del pronto soccorso constata la morte. Giorgiana Masi fu uccisa da un proiettile blindato sparato da notevole distanza che la trapassò da parte a parte alle 8 di sera.
Dal Viminale (il ministro dell’Interno è Francesco Cossiga) il perentorio divieto, assurdo, immotivato. Non c’è alcuna minaccia all’ordine pubblico: i poliziotti per primi sanno che quando a manifestare sono i radicali si può stare tranquilli, al massimo si buttano a terra e si fanno trascinare via, chi ci rimette sono soprattutto i vestiti dei manifestanti; è quasi un rito: una volta identificati, firmati i verbali, capita che si vada insieme a prendere il caffè nel bar vicino. I poliziotti ormai ti chiamano per nome, se la ridono per primi per quello che sono costretti a fare…
Quel pomeriggio no: tutto il centro di Roma è blindato: poliziotti e carabinieri in assetto di guerra, inaccessibile la piazza Navona, i primi manifestanti brutalmente fermati e picchiati per un nonnulla. Lo so bene. Alle 16, all’altezza del Senato, un tipo in borghese senza qualificarsi e dire una parola, mi dà un paio di cazzotti all’altezza dello stomaco, pugni degni del miglior Mike Tyson. E poi violenti strattoni. Lo documenta una giacca di renna dilaniata che conservo ancora gelosamente “cimelio” di quella terribile giornata. Assieme alla giacca, un ritaglio della tedesca “Stern”. La didascalia mi qualifica “autonomo milanese” durante non precisati scontri.