Fin dall'inizio diverse furono le ipotesi investigative, dal terrorismo eversivo di sinistra (ci furono alcune rivendicazioni di sigle extraparlamentari, ma le Brigate Rosse dichiararono la loro estraneità) fino al coinvolgimento di cosa nostra. Infatti l'anno prima nella frazione marinara erano stati uccisi, a un mese di distanza l'uno dall'altro, l'assessore ai lavori pubblici di Alcamo ed ex sindaco DC Francesco Paolo Guarrasi e il consigliere comunale Antonio Piscitello.

Le indagini iniziali sulla strage furono condotte dall'allora capitano dei Carabinieri Giuseppe Russo. Nei giorni successivi la strage fu rivendicata da un sedicente "Nucleo Sicilia Armata" al quotidiano "La Sicilia" , e quindi furono perquisite le abitazioni di attivisti della sinistra extraparlamentare, tra le quali anche quella di Peppino Impastato, poi ucciso dalla mafia nel 1978. Impastato sulle "stranezze" dell'indagine sulla strage indagò privatamente.[5] La cartella con i documenti su Alcamo Marina fu sequestrata dai Carabinieri (i quali sostennero inizialmente che l'attivista di Democrazia Proletaria fosse morto mentre preparava un attentato, come inscenato dai killer mafiosi mandati da Gaetano Badalamenti) nella casa della madre Felicia Impastato poco dopo la morte di Peppino, e non fu più restituita a differenza degli altri documenti (come riferito dal fratello Giovanni).

Nel 2008, in seguito alle dichiarazioni rese dall'ex brigadiere dei carabinieri Renato Olino ad un periodico trapanese, secondo le quali le confessioni di Giuseppe Vesco e degli altri arrestati sarebbero state estorte con la tortura, la Procura della Repubblica di Trapani ha aperto due inchieste. Una sulla morte dei due militari, l'altra su quattro carabinieri accusati di sequestro di persona e lesioni gravissime, vale a dire Giuseppe Scibilia, Elio Di Bona, Giovanni Provenzano e Fiorino Pignatella.

Il brigadiere Olino ha dichiarato ai giudici del tribunale di Trapani che quei ragazzi con l'eccidio non c'entravano nulla e che le loro confessioni erano state estorte con violenze terribili. Vesco, poiché trovato in possesso di armi con bossoli compatibili a quelli ritrovati (anche se non identici), fu torturato anche con l'elettroshock e la tortura dell'acqua (simile all'annegamento simulato) per estorcergli una confessione, e in seguito (secondo il pentito di mafia Vincenzo Calcara) fu forse assassinato nella sua cella, inscenando un suicidio, poiché aveva ritrattato e accusato i militari. Gulotta e gli altri furono vittime di pestaggi e abusi, e a casa di uno di loro fu nascosta della presunta refurtiva. Tutti furono minacciati di morte.

Dalle intercettazioni telefoniche acquisite dalla procura di Trapani a carico dei figli di Giovanni Provenzano (uno dei carabinieri che condusse le indagini sulla strage) nelle quali essi parlano tra loro e con altri parenti di particolari rivelatigli dal padre, emerge come gli stessi militari, per far risultare come non veri i racconti sulle torture, avrebbero cambiato l'arredamento della stanza di una caserma dove gli arrestati furono sottoposti agli interrogatori.