Un meccanico e un sacrestano, Antonio Solazzi e Luigi Barboni, il 10 luglio del ’55 raggiungono Castel Gandolfo in moto per una gita sul lago di Albano. Pranzano con dei panini, bevono qualche birretta e affittano un barchino. Fa caldo, uno dei due avverte un malore e si decide di rientrare. Si fermano davanti a un’antica fonte di acqua acetosa: lì a terra, tra il fogliame, c’è il corpo mutilato di una donna senza testa. Sono visibili sul cadavere sette coltellate profonde.
Nasce così il caso della “decapitata di Castel Gandolfo”, il femminicidio più illustre della storia d’Italia che ancora rientra tra i delitti irrisolti. Ma la vittima non è solo acefala, sono state strappate via le ovaie e anche l’utero. La salma è a poca distanza dalla riva, dietro a un cespuglio di rovi e coperta con due fogli piegati del Messaggero di martedì 5 luglio. Accanto al cadavere ci sono tracce di sangue ma nessun segno di colluttazione. La testa? È stata tranciata di netto, “forse con un unico colpo preciso, l’assassino potrebbe aver utilizzato una scure. È sicuramente opera di mani esperte, la tecnica usata per l’asportazione degli organi uterini e per l’amputazione della testa è da anatomisti competenti. Sì, non ho dubbi, è il lavoro di un medico”, si legge dai rapporti dell’epoca. Se le cose fossero andate davvero così, la donna poco prima di essere stata ritrovata, avrebbe subito un delicatissimo intervento chirurgico all’utero. Si sospetta un aborto recente.