La famiglia Longo è originaria di Mascalucia, alle falde dell’Etna, e vive in condizioni di povertà. Antonietta è la quartogenita e a soli quattro anni viene trasferita in un collegio di suore. Ci resta fino al ’46 quando, appena maggiorenne, si trasferisce a Camerino dalla sorella Grazia, dove rimane fino 1949, anno in cui il cognato la presenta ai Gasparri dove va a lavorare come domestica, fino a quel giorno di luglio del ’55 in cui viene tristemente ritrovata. Per la sua famiglia è un dramma insostenibile e di cui si fa fatica a parlare fino a quando lo scorso anno Giuseppe Rena, figlio del nipote Orazio, si dedica a un’impegnativa e complessa ricerca per ricostruire cosa sia accaduto alla zia. Questo lavoro è al centro del suo libro “Io sono Antonietta – cronaca di un delitto”, pubblicato pochi mesi fa.
In seguito alle sue ricerche, lei sostiene che quello di sua zia è stato un delitto premeditato, architettato fin nei dettagli, mascherato da episodio di bruta violenza. Lo suggerisce la narrazione della storia stessa. E non credo che sia avvenuto sulle rive del lago Albano. La storia fu raccontata in maniera distorta dai media dell’epoca, rappresentata in maniera non aderente alla realtà. Tutto quello che è successo sulle rive è una messinscena: se non vuoi fare ritrovare un corpo non gli tagli la testa e gli fai trovare al polso un orologio artigianale da collezione, non di larga produzione. Lo acquistò mio padre da un sacrestano di fiducia.
Forse l’assassino non era un mostro disperato come suggerito dalla scena del crimine, intende?
Assolutamente non era né un sadico né un folle. E non può aver ammazzato mia zia sul lago senza che nessuno possa aver sentito nulla. È stato tutto predisposto per creare un mostro da sbattere in prima pagina. Il taglio sull’addome arriva fino all’apparato riproduttivo, ovaie e utero sono stati strappati: un sadico non ha il tempo di eviscerare un corpo, tagliare la testa e occultarla prima di andare via. Tutto questo è stato fatto in un altro ambiente e l’utero le è stato asportato perché analizzando l’apparato riproduttivo sarebbe venuto fuori qualche elemento fondamentale per le indagini. È quasi certo che mia zia fosse incinta, molti elementi lo avvalorano. Antonietta sognava di diventare madre e recuperare gli anni trascorsi con le suore, in una delle valigie ritrovate al deposito di Termini c’erano dei numeri di “Mani di fata” con foto di corredini per neonati. Che fosse incinta lo ha anche anticipato lei stessa nella lettera spedita ai familiari.
Dov’è finita quella lettera?
Fu presa dagli inquirenti e mai restituita. Alcuni insinuano non sia mai esistita ma mio padre ancora oggi ne ricorda ogni parola. Fu imbucata il 5 luglio e arrivò il 7 in Sicilia dove mio padre la lesse, la strinse tra le mani. Anche se oggi è ultranovantenne, ricorda bene che lei aveva annunciato un nipotino e che da lì a pochi giorni sarebbe arrivata in Sicilia. Gli sembrò strano: se stava davvero venendo a Mascalucia non avrebbe avuto motivo di inviarla anche se era la sua calligrafia, papà la conosceva bene. Ma era una lettera strana, si presume che lei l’abbia scritta o sotto coercizione o che si sia illusa a riguardo. La lettera serviva solo a prendere tempo nei primi giorni di luglio in cui nessuno sa cos’è accaduto e forse per giustificare la sua assenza.