Il "Caso Fenaroli", approdato nelle aule dei tribunali, appassionò l'Italia dividendola in "colpevolisti" e "innocentisti" e fu la prima volta in Italia che il pubblico dedicò la sua attenzione e passione a un caso di omicidio compiuto "a freddo" e con determinazione e impostazione a lungo studiata e realizzata nei minimi particolari, sul filo di percorsi in auto, orari di aerei e treni determinanti per il successo dell'operazione, che un qualunque disguido, non del tutto improbabile, nella sequenza dei vari movimenti dell'assassino, avrebbe potuto mandare a monte.
Secondo l'accusa, la mente che studiò tutto questo era un geometra, imprenditore sulla via del fallimento, che per la sua meticolosità nel progettare il crimine, giostrandosi fra le insidie del mancato rispetto di orari previsti con precisione assoluta e con margini esigui, venne anche chiamato «il capostazione della morte». In un articolo Indro Montanelli si disse convinto che il denaro e il guadagno non fossero stati mai i veri traguardi di Fenaroli e ipotizzò che «probabilmente l'odio per la Martirano gli nacque in corpo il giorno in cui, come prima o poi capita a tutti i mariti, si accorse che lei lo vedeva com'era e non come lui si sforzava di sembrare: un pover'uomo qualunque.»
L'11 giugno 1961 la Corte d'assise di Roma, con la testimonianza determinante del ragionier Sacchi, condannò Fenaroli e Ghiani all'ergastolo, mentre Carlo Inzolia venne assolto per insufficienza di prove (20 000 persone, fuori dal tribunale, attesero la sentenza fino alle 5 del mattino). Il 27 luglio del 1963 la Corte d'Assise d'Appello di Roma confermò le condanne all'ergastolo per Ghiani e Fenaroli, mentre Carlo Inzolia fu condannato a 13 anni di reclusione per complicità. Giovanni Fenaroli morì in carcere nel 1975, Ghiani ricevette la grazia nel 1983, mentre Carlo Inzolia ottenne nel 1970 la libertà condizionata.