Milena Quaglini decide dunque di tornare nel Pavese, a Broni a casa del marito, con l’obiettivo di provare a ricostruire la famiglia. Ma la donna non sta bene – soffre di crisi depressive – ha problemi con l’alcol e le cose tra le mura domestiche non vanno per il meglio. Il coniuge continua a umiliarla e a essere violento, arrivando a torturare il primo figlio. Tensioni, litigi e botte.
Più forte mentalmente dopo il primo omicidio, Milena Quaglini dice basta. Il 2 agosto del 1988 vede il marito addormentato sul letto e ne approfitta per stordirlo con un cofanetto di legno. Poi lo lega e lo strangola con la corda di una tapparella. Successivamente, porta il cadavere sul balcone e lo lascia avvolto in un tappeto. Le figlie, 5 e 8 anni, non si accorgono di niente. La donna spiega che è andato via per lavoro.
Ma il peso è difficile da sopportare: il giorno dopo chiama i carabinieri per confessare quanto accaduto. Racconta le liti, le botte, le brutali aggressioni. Ripercorre anche i tentati suicidi a causa di questa situazione insostenibile. A darle man forte, le testimonianze della madre, della sorella, delle figlie e di alcuni vicini di casa. Milena Quaglini viene condannata a 14 anni di carcere con attenuanti e le viene riconosciuta la semi-infermità mentale. Dopo un anno dietro le sbarre, la donna viene trasferita in una clinica del Pavese per seguire un programma di disintossicazione dall’alcol.