Cesare Casella ha 18 anni e mezzo quando viene rapito. Suo padre Luigi è proprietario di una concessionaria Citroën, la Casella Srl, che si trova sulla Vigentina, alla periferia pavese. Dietro l'azienda c'è la casa di famiglia che Cesare sta raggiungendo in automobile, alle 20:25 di lunedì 18 gennaio 1988, una serata di fitta nebbia. Un automobile blocca la strada al ragazzo urtando la sua: due uomini lo prelevano con la pistola puntata e lo portano in un garage non lontano dal capoluogo. Qui Cesare trascorre una decina di giorni, in compagnia di un bandito che soprannomina "Maradona" in quanto tifoso del Napoli; per coincidenza, il nome del calciatore argentino verrà usato come parola d'ordine dei sequestratori nei contatti con la famiglia.

I mandanti del sequestro, mai trovati, fanno parte dell'anonima sequestri calabrese, direttamente collegata alla 'Ndrangheta, che usualmente ricicla i soldi dei riscatti per l'importazione e lo spaccio di sostanze stupefacenti. Il primo contatto con la famiglia avviene il 10 febbraio, e la prima richiesta è di otto miliardi di lire. Cesare, nel frattempo, è stato trasferito nella stessa Calabria, e precisamente sull'Aspromonte, massiccio montuoso in provincia di Reggio Calabria (vetta più alta il Montalto, 1956 m). Nella stessa zona sono custoditi altri sequestrati, in un periodo che è l'ultimo in fatto di rapimenti su scala "industriale". Le prigioni (o “tane”, come le chiamerà il ragazzo nel suo libro) sono scavate nella terra, per la lunghezza di 2, la larghezza di 1 e l'altezza di 1,5 metri, ai piedi di un albero alla base del quale vengono assicurate le catene da legare alla caviglia e al collo del sequestrato. Le pareti sono foderate di un muro di sassi e una lamiera, ricoperta di foglie, fa da tetto. Cesare, di queste “tane”, ne abiterà tre: la prima a febbraio per due settimane, la seconda fino alla fine di agosto 1988 e la terza, quella più ampia, per ben diciassette mesi fino alla liberazione.

Dopo la prima richiesta, i rapitori diminuiscono l'importo da far pagare alla famiglia, scendendo gradualmente da otto a un miliardo. A metà marzo arriva pure la prima prova in vita – fotografia Polaroid - di Cesare, che è ritratto con un quotidiano (del 13) il cui titolo beffardamente augurante, riferito alla crisi del Governo Goria, è “Un'apertura al buio”. In agosto (mese noto per la liberazione dopo 18 mesi del piccolo Marco Fiora), il padre Luigi e il fratello minore Carlo giungono in Calabria e seguono le procedure di pagamento volute dalla banda. Il 14 arriva la seconda prova in vita (del 12) e i soldi vengono consegnati. Ma nei giorni successivi Cesare non ricompare: verrà solo trasferito da un'altra parte. Quanto ai soldi, i banditi rilanciano e chiedono altri due miliardi, cifra questa destinata ottusamente a salire fino ai cinque del 5 giugno 1989, per poi ridiscendere gradualmente e tornare ad un unico miliardo - come quello già pagato - nell'ottobre dello stesso anno.

Dopo il primo riscatto, i contatti fra sequestratori e famiglia si fanno meno frequenti, anche per gli interventi di forze dell'ordine e magistrati che stavolta sono decisi a impedire un secondo pagamento. La contraddizione, naturalmente, è molto forte: da una parte vi è uno Stato col dovere di prevenire il finanziamento di atti illeciti (quello a cui servono, per l'appunto, i soldi di un riscatto), dall'altra una famiglia col diritto di tutelare l'incolumità del proprio congiunto. Già più volte acceso dai precedenti casi di sequestro di persona a vari scopi (primo fra tutti quello dello statista Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nel 1978), il dibattito fra linea dura (o della fermezza) e linea morbida (o della trattativa) divide ancora l'Italia.