Serena Mollicone nasce ad Arce il 18 novembre 1982. A crescerla, da solo, il padre Guglielmo, insegnante di una scuola elementare: la madre se ne andò per una grave malattia quando lei aveva solo sei anni. L’estate della sua morte, Mollicone avrebbe dovuto sostenere l’esame di maturità al liceo socio-psico-pedagogico Vincenzo Gioberti nel Comune di Sora. Il 1° giugno 2001 esce di casa per andare all’ospedale di Isola del Liri. In agenda c’era una radiografia ai denti. Poi aveva un appuntamento con il ragazzo che frequentava. Quel giorno non torna a casa. In serata il padre lancia l’allarme e si iniziano a raccogliere informazioni in giro. La proprietaria di un bar assicura di averla vista nel suo locale con altri ragazzi. Il carrozziere Carmine Belli conferma questa versione: ha visto Mollicone davanti a quel bar. Litigava con un ragazzo dai capelli biondi.
Due giorni dopo, intorno all’ora di pranzo, una squadra della Protezione Civile trova Mollicone. È morta: il suo corpo è dietro un cassone della spazzatura abbandonato, coperto con rami e foglie. Del nastro adesivo tiene chiusa la sua bocca. Scotch e fil di ferro le legano mani e piedi. Si ipotizza una morte per asfissia, che verrà poi confermata dall’autopsia. Nei pressi, i suoi libri di scuola.
Prima che venisse trovata la salma, il maresciallo Franco Mottola aveva bussato a casa Mollicone. Lì aveva preso il diario della vittima. Emergerà negli anni a venire che nei verbali ufficiali del diario non c’è traccia. I carabinieri poi tornano nell’abitazione della giovane e cercano il suo cellulare - vicino al suo corpo non c’era – senza però trovarlo. Tre giorni dopo quella perquisizione, il cellulare sbuca nel primo cassetto del comodino in camera della ragazza. Attira l’attenzione un contatto in particolare, quello denominato in rubrica “Diavolo” (con il numero 666). Anni dopo gli inquirenti sosterranno che fosse soltanto un tentativo di depistaggio: chi ha ucciso Mollicone ha creato un contatto falso per far perdere le proprie tracce.