L’omicidio di Marta Russo scatena un caso giudiziario forse senza precedenti. Invade le case delle famiglie italiane attraverso lo schermo, forse per il luogo in cui è avvenuto ma anche per l’assurdità delle circostanze. Attraverso le indagini iniziali non si arriva a nessun movente. Si parla di scambio di persona, “terrorismo” (accade nel giorno dell’anniversario dell’uccisione di Aldo Moro), sparo accidentale, poi il delitto perfetto per cui nel 2003, sulla base di una controversa testimonianza viene condannato in via definitiva per omicidio colposo l’assistente universitario di Filosofia del Diritto Giovanni Scattone insieme a un suo collega, Salvatore Ferraro, inizialmente per favoreggiamento. A causa dell’atteggiamento dei due pubblici ministeri, giudicato come eccessivamente inquisitorio, viene aperto anche un breve procedimento per abuso d’ufficio e violenza privata.
Il delitto è definito colposo perché Scattone, dalla posizione in cui si sarebbe trovato, non avrebbe potuto esplodere un colpo preciso, mirato verso Marta. Il 15 dicembre 2003 la V Sezione Penale della Corte di cassazione, condanna Giovanni Scattone a 5 anni e quattro mesi, e Salvatore Ferraro a 4 anni e due mesi, eliminando a entrambi il reato di detenzione illegale di arma per l’impossibilità di determinarne la provenienza e riducendo le condanne severe della Corte d’Appello. Tutte le perizie vengono annullate, il verdetto si basa solo sulle testimonianze Gabriella Alletto e Maria Chiara Lipari che dichiarano di aver visto Scattone e Ferraro nell’aula da cui si presume sia partito il colpo che ha ucciso Marta Russo, al momento stesso dell’omicidio: la numero 6 della sala assistenti dell’Istituto di Filosofia del Diritto, in seguito, come viene scritto anni dopo dai giudici della Corte di Cassazione, “al rinvenimento sulla finestra destra n.4 di quell’aula di una particella composta da bario e antimonio, indicativa dello sparo”. Il proiettile, secondo la perizia, è stato esploso da quella finestra. Un’altra perizia smentisce l’esame ma intanto le indagini sono concentrate su quella pista. L’arma non è stata mai ritrovata.
Particolarmente controversa la testimonianza della Alletto. La donna è segretaria amministrativa, viene interrogata come testimone ma le viene impedito di nominare subito un legale, alla stregua di un’indagata. La condotta dei pubblici ministeri è definito “gravissima” dall’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi, perché quasi al limite della minaccia. La Alletto viene interrogata circa 13 volte in tre giorni. La donna subisce non lievi pressioni psicologiche. In un’audio raccolto dai cronisti di Radio Radicale, un’intercettazione ambientale, ripete: “Non sono mai entrata in quell’aula […] Io nun ce stavo là dentro, te lo giuro sulla testa dei miei figli… Non ci sono proprio entrata, ma come te lo devo dì? Fino allo sfinimento…”.