Screenshot 2024 10 23 at 13 00 53 Lo strano delirio borderline di Daniela Cecchin GQ ItaliaL’8 novembre 2003, diciotto anni dopo l’ultimo duplice delitto delle coppiette, Firenze piomba nell’incubo di un nuovo Mostro. Stavolta l’ambientazione non è un parcheggio di periferia, tantomeno un campo. Il panico scoppia nel centro storico quando si scopre che una funzionaria di banca, Rossana D’Aniello, è stata sgozzata all’interno del suo appartamento in un sabato come tanti. L’assassino è entrato poi in casa, lasciando in giro impronte calcate nel sangue. Apparentemente non ha rubato nulla. Apparentemente. Perché in effetti mancano degli abiti del marito della donna, il farmacista Paolo Botteri: un giaccone, in particolare. Chi ha ucciso si è cambiato i propri vestiti con i suoi prima di andarsene. In modo che nessuno sospettasse nulla. Si pensa subito ad un uomo, anche per la forza impressa nello sferrare il colpo. Ma chi? È una storia che appare subito priva di senso. Senza movente, senza testimoni e, ci si accorge presto, senza tracce: la polizia isola infatti il dna dell’aggressore, ma in banca dati non appre nulla. Si tratta di un incensurato.


Mentre si cerca in lungo e in largo, Botteri ricorda alcune strane telefonate mute ricevute qualche tempo prima. I controlli dei tabulati portano tutti ad una medesima cabina telefonica: per buona sorte l’assassino ha usato una volta la scheda anche per chiamare la casa della propria madre. È così che viene individuato. Ma non è un uomo: si tratta di Daniela Cecchin, 47 anni, impiegata comunale, donna scrupolosa, educata ed estremamente religiosa. In dna, ricavato da una sessantina di reperti, tra sangue e capelli, conferma. Allo sgomento iniziale della città e degli inquirenti ne segue uno molto più grande quando la donna confessa: dice che la vittima non la conosceva neppure. Fin dai tempi del liceo, racconta, si era sentita derisa da tutti proprio per la sua religiosità e la sua introversione, e lei era andata in depressione.

«Ma cosa c’entra col delitto?» domandano.

C’entra. E Daniela ricorda: tre anni prima, casualmente, aveva visto passare per Firenze un suo vecchio compagno di università, Paolo Botteri, l’unico ragazzo che era stato gentile con lei. Nient’altro, gentile. E allora aveva preso a seguirlo. Scoprendo che lui, a differenza sua, aveva terminato gli studi e aveva aperto una farmacia in centro. E ancora che aveva moglie e due figlie.

«E allora?» chiedono.


 

Screenshot 2024 10 23 at 13 31 37 daniela cecchin Cerca con GoogleE allora era così che il rancore era iniziato. L’invidia per Rossana D’Aniello, una donna che nemmeno conosceva e che aveva sposato Botteri. Pensò che forse una vita così sarebbe potuta capitare anche a lei. La felicità, una famiglia, un uomo gentile che non la deridesse. La mente va e pianifica il delirio. In un’agenda tascabile gli agenti le troveranno scritto: «Guanti, la miglior vendetta est coltello, orari libe». Un altro coltello - più piccolo di quello usato nel delitto - sarà recuperato nel cestello della lavatrice. L’intenzione, pare, era sopprimere tutto ciò che rappresentasse il fallimento della propria vita. Molestava telefonicamente anche la moglie di un medico, una vendetta per i tempi del liceo; ma, dirà lei, non voleva ammazzare nessun altro. Anzi, a dirla tutta, ripete, non avrebbe mai voluto ammazzare proprio nessuno.

Solo che l’8 novembre, la collera era salita. Suonò alla porta di Rossana D’Aniello fingendo di dover consegnare un pacco. E quando la vittima aprì, la accoltellò. «Non sapevo neanche io cosa farne, se rivolgerlo contro di me o contro qualcuno. – dice ai magistrati - Ero in uno stato...io ho queste depressioni psichiche».

L’idea di uccidere è maturata all’improvviso: «quando mi ha aperto la porta di casa...mi è preso un furore». E conclude: «È da una settimana che penso che se veniva la polizia in casa mi sarei tagliata le vene perché io ormai ho completamente rovinata la vita». Anche se: «Sono molto religiosa. Ho molta più fiducia nella giustizia di Dio che in quella degli uomini».


 

Nessuno riesce a commentare. Per giudicare un caso del genere ci vogliono gli psichiatri. Il processo si svolge con rito abbreviato.

La prima perizia la definisce seminferma di mente.

Una seconda, stilata dal professor Ugo Fornari, la definisce invece borderline, una personalità estremamente critica, ma che al momento di uccidere la rendeva comunque in grado di intendere e di volere. In primo grado la condannano a 30 anni. Pena confermata in appello nonostante una terza perizia concludesse ancora per la seminfermità.

Il ricorso della difesa viene però accolto in Cassazione, che annulla la sentenza, con toni piuttosto forti sulle motivazioni della condanna: «Carente di alcuna scientificità è poi l’affermazione chiave per la quale l’invidia e solo l’invidia avrebbe armato la mano della Cecchin» affermazione ritenuta «confinante con la banalità e del tutto singolare, peraltro, in una trattazione che si nutre giustamente di dati e valutazioni di scienza».

In una guerra di carte, esami e visite psichiatriche, il 30 gennaio 2008 i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Firenze giungono così ad una nuova conclusione: «Al momento della commissione del reato, Daniela Cecchin era (ed è tuttora) affetta dalla seguente severa infermità: disturbo della personalità paranoide» cosa che ha «grandemente scemato la sua capacità di intendere e di volere». Accogliendo la richiesta di patteggiamento la condanna della donna scende così a 20 anni. Le diverse e contrastanti conclusioni degli esperti mettono in luce quanto siano drammaticamente fragili le certezze della psichiatria e della criminologia nel giudicare la mente di un assassino.

Quando chiedono a Botteri un commento sulla sentenza, il farmacista trattiene a stento la rabbia: «Una cosa vergognosa».


 

Daniela Cecchin, oggi, è una donna libera.

Nonostante la sua pericolosità sociale, il 1 agosto del 2017 le porte del carcere per lei si sono aperte. A 61 anni, con ancora molto tempo da vivere davanti a sé, è stata trasferita nella residenza psichiatrica Le Querce, a Firenze. Per il magistrato di sorveglianza Antonio Bianco, Daniela Cecchin non poteva allontanarsi da lì per sei mesi, perché anche se la società, diceva, deve tutelarsi, si doveva pensare anche alla sua salute.

I 30 anni del primo grado così sono diventati 20, di cui solo 13 e 9 mesi sono stati scontati in carcere. Poi Daniela, lo permette la legge, ha usufruito degli sconti di pena ed è uscita di prigione. Eppure non aveva mai avuto un permesso premio in quegli anni, perché troppo pericolosa. Doveva essere ricoverata in una Rems per 3 anni uscita di prigione, cioè in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ma secondo il magistrato di sorveglianza sarebbe stato troppo punitivo per lei. Sarebbe stato ‘controproducente sotto il profilo terapeutico-riabilitativo’. Eppure, l’ultima perizia psichiatrica su Daniela Cecchin parlava ancora di un ‘disturbo pervasivo e difficilmente emendabile che la induce a interpretare i fatti in maniera persecutoria”.

Nonostante questo, sono bastati 9 anni in carcere e 6 mesi a Le Querce per dare giustizia a Rossana e alla sua famiglia.