Nessuno riesce a commentare. Per giudicare un caso del genere ci vogliono gli psichiatri. Il processo si svolge con rito abbreviato.

La prima perizia la definisce seminferma di mente.

Una seconda, stilata dal professor Ugo Fornari, la definisce invece borderline, una personalità estremamente critica, ma che al momento di uccidere la rendeva comunque in grado di intendere e di volere. In primo grado la condannano a 30 anni. Pena confermata in appello nonostante una terza perizia concludesse ancora per la seminfermità.

Il ricorso della difesa viene però accolto in Cassazione, che annulla la sentenza, con toni piuttosto forti sulle motivazioni della condanna: «Carente di alcuna scientificità è poi l’affermazione chiave per la quale l’invidia e solo l’invidia avrebbe armato la mano della Cecchin» affermazione ritenuta «confinante con la banalità e del tutto singolare, peraltro, in una trattazione che si nutre giustamente di dati e valutazioni di scienza».

In una guerra di carte, esami e visite psichiatriche, il 30 gennaio 2008 i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Firenze giungono così ad una nuova conclusione: «Al momento della commissione del reato, Daniela Cecchin era (ed è tuttora) affetta dalla seguente severa infermità: disturbo della personalità paranoide» cosa che ha «grandemente scemato la sua capacità di intendere e di volere». Accogliendo la richiesta di patteggiamento la condanna della donna scende così a 20 anni. Le diverse e contrastanti conclusioni degli esperti mettono in luce quanto siano drammaticamente fragili le certezze della psichiatria e della criminologia nel giudicare la mente di un assassino.

Quando chiedono a Botteri un commento sulla sentenza, il farmacista trattiene a stento la rabbia: «Una cosa vergognosa».