In dicembre il magistrato archivia e, contestualmente, fissa il processo per diffamazione contro Muto, che nell'udienza del 28 gennaio 1954 accenna a "orge a base di stupefacenti" a Capocotta, vicino al litorale di Tor Vajanica, riserva di caccia amministrata da Ugo Montagna, marchese di San Bartolomeo. Questi, vicino a diverse personalità politiche e del mondo degli affari, ha un legame anche con Anna Maria Moneta Caglio, la figlia di un notaio milanese soprannominata 'Cigno nero' dalla giornalista Camilla Cederna per via del collo lungo, da mannequin, che spuntava bianco ed elegante dai pullover immancabilmente neri. Moneta Caglio, convinta di essere vicina alla verità sulla ragazza, consegna un memoriale a un gesuita che lo fa arrivare al ministro dell'Interno Amintore Fanfani.
L'esponente Dc fa sentire la donna da un colonnello dei carabinieri per due volte. Quando Muto racconta questi segreti e intrecci nell'udienza per la diffamazione di gennaio, il "caso Montesi" riesplode come una bomba. L'opinione pubblica si divide tra colpevolisti e innocentisti. Montagna si difende e dice di non aver mai conosciuto Montesi, il questore di Roma ribadisce la tesi del pediluvio, Moneta Caglio si nasconde temendo d'esser uccisa.
In quei giorni il caso di cronaca s'intreccia col tentativo fallito di Fanfani di formare un governo monocolore. Nasce invece un quadripartito, Fanfani è fuori, Attilio Piccioni agli Esteri, Scelba premier e al Viminale. Il caso investe pure il Parlamento con l'interrogazione del missino Franz Turchi che si rivolge a Scelba per chiedere cosa intenda fare per tranquillizzare Parlamento e opinione pubblica. Sui giornali scrivono anche Ingrao, direttore de l'Unità, Palmiro Togliatti segretario del Pci, il socialista Pietro Nenni, il direttore del Corriere Mario Missiroli per dire nel suo primo articolo di fondo che l'affare Montesi "è qualcosa di più di uno scandalo giudiziario () è un avvenimento politico che impegna tutta la democrazia italiana".