Screenshot 2024 10 04 at 10 16 44 rina fort Cerca con GoogleLa mattina del 10 gennaio 1950 davanti alla corte d’Assise di Milano ebbe inizio il processo contro Caternia Fort, accusata di strage. Suo difensore era l’avvocato Antonio Marsico, che dall’esperienza pre-processuale trasse un interessante libretto che ebbe una certa fortuna, negli ambienti giudiziari, sulla fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta.

Preliminarmente fu affrontato il problema se accettare o meno la costituzione parte civile del Ricciardi, che voleva ottenere il risarcimento per la perdita dei suoi tre figli. Dal momento che l’istruttoria lo aveva scagionato, lo aveva cioè ritenuto estraneo a quel disegno criminoso sul quale puntava la difesa della Fort, fu accettata la sua costituzione, pur tra le proteste dell’avvocato della Fort e del pubblico assiepato dentro e fuori il Palazzo di Giustizia, che riteneva quell’uomo spregevole e indegno padre di famiglia.

La prima domanda che venne rivolta a Caterina Fort fu se avesse o meno commesso i fatti di cui era imputata. Questa iniziò a raccontare ai giudici la storia di via San Gregorio: quella maledetta sera, la sera del 29 novembre, dopo aver preso accordi con Pippo per inscenare la rapina, era uscita, assieme ad una amica, dal pasticceria dove aveva trovato lavoro come commessa intorno alle 18 e 30. Rincasando, era stata affiancata dal fantomatico Carmelo in via Felice Casati, e da quello aveva accettato una sigaretta. La Fort attribuiva a quella strana sigaretta (da lei definita “drogata”) il senso di stordimento che la avvolse, tanto violento da seguire imbambolata Carmelo, che la condusse, naturalmente, in via San Gregorio 40, dove erano accadute cose terribili, delle quali però lei non aveva memoria, se non fotogrammi sparpagliati e sconnessi. Ricordava solo di aver colpito con tutte le sue forze la signora Franca, poi solo rumori e colpi dappertutto. Le pareva che nelle stanze vi fosse un altro uomo, forse un amico di Carmelo, ma non sapeva neppure descrivere questo presunto complice. Era certa solo che ad un tratto si era ritrovata a terra semisvenuta, e che poi Carmelo l’aveva rianimata porgendole un bicchiere.

Poi se ne erano andati giù per le scale, lei si era nascosta per qualche tempo nella cantina dello stabile, ed infine, da sola, si era diretta alla propria abitazione. Lì, aveva avuto persino voglia di cenare, cucinando due uova al tegamino.

Subito il Presidente le contestò le discrepanze tra il racconto fatto in aula, e la deposizione che all’epoca aveva rilasciato presso gli uffici della Questura. Lei attribuì il fatto all’essere stata maltrattata dalla Polizia, di aver confessato dopo un interrogatorio durato quasi venti ore, in condizioni disumane e senza poter tenere testa ai violenti polizziotti.

Il difensore della Fort cercò di fare del suo meglio durante tutto il processo. Si tenga tuttavia presente che all’epoca dei fatti la partecipazione dell’avvocato durante le indagini preliminari era praticamente azzerata. Sotto la vigenza dell’art. 124 del codice di procedura penale (promulgato e pensato in epoca mussoliniana) l’istruttoria era infatti segreta, e ciò significava per l’avvocato difensore non poter assistere all’interrogatorio del sospettato, e neppure ad eventuali perizie, ricognizioni, confronti.

In ogni modo, pur conscio delle difficoltà, l’avvocato Marsico puntava a dimostrare che la Fort non era stata sola in quelle stanze maledette. Voleva provare che altri era quella sera con lei, forse proprio un complice affiancatole dal Ricciardi, secondo i suoi piani criminosi. E per fare ciò mise in luce un fatto fino ad allora abilmente schivato dall’accusa. Durante il sopralluogo nei locali di San Gregorio, era stata rinvenuta una penna stilografica, che si era appurato non appartenere nè alla signora Ricciardi, nè al Ricciardi, nè, ovviamente, alla Fort. Quindi doveva essere di qualcuno che quella sera si era introdotto nell’appartamento assieme alla Fort, e che nel parapiglia l’aveva senz’altro smarrita.

Ma l’accusa sostenne che quella penna poteva benissimo essere caduta ad uno dei tanti (troppi) giornalisti e curiosi che si precipitarono nel locale la mattina dopo, prima che le forze dell’ordine potessero isolare e preservare la scena del delitto. Altri testi furono ascoltati, per meglio chiarire il quadro della vicenda, ma non emersero nuovi o interessanti risvolti. Venne ascoltato il signor Vitali, che era stato il primo datore di lavoro della Fort, prima che questa finisse nelle braccia del Ricciardi. Si riuscì solo ad appurare che era stata anche la sua amante, il che non l’aiutò certo ad apparire sotto una luce migliore davanti ai giudici popolari. Anche un conoscente della Fort, che lei sosteneva di aver incontrato la sera che andava a braccetto col Carmelo a compiere la mattanza, disse di averla sì incontrata, ma da sola, senza galanti accompagnatori. Si cercò poi di dimostrare che quest’ultima testimonianza, resa peraltro da un ragazzo all’epoca dei fatti minorenne, era stata forse “pilotata” dal padre, che non voleva rogne con la legge.

Insomma, nessuno pareva credere all’esistenza di complice: la Fort era veramente sola quella sera? Per la giustizia italiana la risposta era sì!

Ad avvalorare questa tesi, intervenne l’avvocato della vedova di quel Carmelo Zappulla, che, seppur innocente, era stato per mesi a San Vittore, e poi era morto poco dopo la scarcerazione. Il difensore volle ripercorrerne il calvario, a partire dalla sera in cui, era la vigilia del Natale, venne portato in questura proprio a causa del suo nome, Carmelo, lo stesso che la Fort aveva attribuito al complice della sera del delitto. Il grottesco della storia fu che Carmelo, messo in una stanza con altri personaggi (tra cui due poliziotti in borghese), non venne neppure riconosciuto dalla Fort come il suo complice: alla richiesta di indicare tra i presenti il complice Carmelo, lei additò con convinzione niente meno che uno dei poliziotti! Poi però, portata in carcere e “informata” dalle voci delle compagne che il riconoscimento era andato male, chiese di poter ritrattare e ritentare (manco fosse una lotteria) il confronto all’americana. Questa volta indicò il Carmelo giusto, lo Zappulla appunto, che per quello scherzetto si era fatto 18 mesi di galera, prima di essere scarcerato con tante scuse.