La perizia psichiatrica svolta sulla Fort ad opera del professor Saporito aveva tolto di mezzo ogni dubbio: era sana di mente, e di una intelligenza superiore alla media. E dalle risultanze dell’istruttoria, era sola quella sera.La difesa tuttavia voleva allora una risposta: di chi era il mazzo di chiavi e la penna stilografica rinvenuti nell’appartamento? Per forza dovevano essere di un complice, visto che non erano di Caterina Fort, nè del Ricciardi. Tuttavia non vi fu mai data una risposta alla domanda.
La sentenza emessa dalla corte d’assise di Milano fu infatti la seguente: Canterina Fort era colpevole di omicidio volontario nei confronti della signora Franca e dei piccoli Giovanni, Giuseppina, Antonio, e di simulazione di reato per quanto riguardava la rapina e di calunnia a danno di Giuseppe “Carmelo” Zappulla. La condanna fu l’ergastolo con isolamento diurno per sei mesi, interdizione perpetua dai pubblici uffici e interdizione legale. In separato giudizio civile sarebbero poi state valutate le spese per i risarcimento danni. La condannata rimase poco a San Vittore: presto fu trasferita nel carcere di Perugia.
Nel 1951 il processo venne nuovamente celebrato, dopo apposito ricorso per Cassazione, davanti alla Corte d’Assise di Bologna.
Si riproposero la audizioni di testimoni a favore della Fort, e si riavanzò l’accusa che la confessione della Fort, quella avvenuta in questura, fu il frutto di un interrogatorio disumano, lunghissimo, senza rispetto per la sua dignità; una situazione, insomma, che avrebbe spinto chiunque a confessare cose non commesse. L’unico testimone che forse avrebbe potuto scagionare la “belva” era quel ragazzo che l’aveva incontrata la sera dell’omicidio, il Terzaghi. Ma ancora una volta confermò, pur tra molti “non ricordo, è passato troppo tempo”, che la Fort era sola, e che a lui, per quel che gli era parso, nessun uomo le camminava a fianco. Inutili furono le grida della Fort: “Ero accompagnata!!! E tu lo sai!”. Il teste fu invitato ad accomodarsi. Fu ascoltato di nuovo il Ricciardi, ma la sua versione non si scostò da quella già sentita a Milano. Mai aveva mandato la Fort ad ammazzarle moglie e figli, e lui in quei giorni a Prato c’era andato per affari, non per un alibi o cose del genere.
Insomma, il processo di Bologna era semplicemente un “dejà vu”. L’unica scossa fu data dalla lamentela avanzata alla Camera dei Deputati dal Calamandrei, a causa dell’interrogatorio svoltosi in Questura. Ne seguì anche un’inchiesta e la solita polemica politica. Il 9 aprile 1952 fu letta la condanna: ergastolo.
Caterina tornò nella casa di reclusione di Perugia, dalla quale scrisse molte lettere al suo avvocato. Tra le tante frasi, forse la più inquietante fu: “Non è la quantità della pena che mi spaventa. C’è una parte del delitto che non ho commesso e non voglio”.