Screenshot 2024 11 09 at 13 54 58 Erio Codecà Cerca con GoogleA sfogliare un quotidiano di settant’anni fa, in un’era di ricostruzione post bellica e priva di aggeggi elettronici, si ritrovano temi familiari: le liti tra i partiti della maggioranza, «i cinque teatri di guerra in Asia», «la pioggia arrivata appena in tempo» per arginare i danni della siccità e, soprattutto, le brutte notizie. Il Corriere del 15 aprile 1952 raccontava di una perpetua accusata di essere una serial killer di parroci, di uno sciopero per la crisi di un’azienda telefonica, di una tragica inondazione, di un incidente mortale sul lavoro. E della partita di pallone: quel fine settimana si sarebbe giocato uno dei Torino-Juventus ancora segnati dal dopo Superga. Sarebbe finita sei a zero per Boniperti e compagni ma Eleuterio Codecà, per tutti Erio, il derby non l’avrebbe mai visto.


Screenshot 2024 11 09 at 14 00 52 Erio Codecà Cerca con GoogleL’ingegner Codecà, quella sera, era uscito dallo stabilimento Fiat di Torino ed era salito sulla sua 1100. Attraversato il Po, si era fermato di fronte alla sua villetta — tuttora esistente e abitata — di via Villa della Regina, al civico 26. Aveva parcheggiato sul lato opposto, col muso rivolto verso il fiume, e si era ritirato. Era solo in casa, salva la presenza della governante: la moglie Elena e la figlia Gabriella stavano passando qualche giorno di svago a Rapallo. Codecà era nato nel 1901 da una buona famiglia e aveva fatto carriera: dopo la laurea in ingegneria in Francia, la Fiat lo aveva assunto e incaricato di coprire ruoli di responsabilità negli stabilimenti in Romania e in Germania. A Bucarest aveva conosciuto Elena Piaseski, figlia di un medico di origine polacca, poi divenuta sua moglie. Durante la guerra, era stato figura di vertice della Deutsche Fiat Automobil Verkaufs ed era rientrato in Italia dopo l’armistizio dell’otto settembre, per occuparsi del centro produttivo di Mirafiori. Nel 1952, da responsabile delle divisioni Grandi Motori, faceva parte di un gruppo ristretto di dirigenti realmente influenti, capitanati dal presidente Vittorio Valletta. 


Screenshot 2024 11 09 at 14 02 10 Erio Codecà Cerca con GoogleVerso le 21.30, dopo aver cenato e chiamato la famiglia al telefono, Codecà uscì di casa col suo cocker per fare una passeggiata. Fece in tempo a caricare il cane in automobile quando qualcuno, nascosto dietro una siepe, gli sparò addosso un colpo di pistola. Il proiettile trapassò l’emitorace destro, perforò fegato, polmoni, cuore e non gli diede scampo. In tasca gli trovarono una lettera col timbro di Rapallo e un biglietto: «Caro Papà, ti faccio tanti auguri di buona Pasqua». Nei giorni seguenti, sui muri di Mirafiori comparvero scritte che inneggiavano all’assassinio: «Uno di meno», «Il primo è servito e altri ne seguiranno». Non erano ancora i tempi del terrorismo nelle fabbriche, ma della lotta di classe sì: la Cgil si affrettò a prendere le distanze da quelle vaghe rivendicazioni, condannando pubblicamente l’esecuzione. Il fatto è che Codecà, al di là del carattere mansueto, pareva un bersaglio improbabile per un assassinio politico: non si era mai esposto, non risultavano intestati a suo nome provvedimenti degni di vendetta. Era un uomo buono. 


 Nonostante il clamore e a dispetto dello sconvolgimento della città, nel giro di qualche settimana il caso dell’ingegner Codecà si sgonfiò, per mancanza assoluta di indizi. Fino all’estate del 1955: in luglio, il procuratore generale Cassina mandò a prelevare un uomo residente a Pianezza. Si trattava di Giuseppe Faletto, 34 anni, ex partigiano col nome di battaglia di Briga: secondo i suoi conoscenti, un tipo spregiudicato e coraggioso che, spesso, durante la Liberazione aveva passato il segno macchiandosi di atti illeciti. A incastrarlo, due rudimentali intercettazioni ambientali con un magnetofono, catturate in un ristorante di Druento. A preparargli la trappola due presunti amici, Vinardi e Camia, che si erano rivolti ai carabinieri raccontando di aver ascoltato Faletto mentre si vantava dell’omicidio Codecà. In corte d’Assise, però, le accuse non ressero: non c’erano prove dirette della presenza di Briga nel luogo dell’omicidio quel 15 aprile, né indizi solidi. 


Screenshot 2024 11 09 at 14 03 40 Erio Codecà Cerca con GoogleI due accusatori pare fossero stati attirati dalla taglia offerta dalla Fiat per chi avesse aiutato a risolvere il caso. Faletto venne assolto con la formula, oggi estinta, dell’insufficienza di prove ma scontò comunque un ergastolo, poi ridotto a diciotto anni di reclusione nel carcere di Fossano, per reati commessi durante la guerra. Mandato a uccidere una panettiera, ritenuta una spia fascista, aveva ammazzato anche il figlio, del tutto estraneo alle vicende belliche. Si era macchiato anche dell’omicidio di un fattore dei conti Valperga, da cui aveva preteso capi di bestiame e denaro. Ma con la tragica morte di Codecà non aveva nulla a che fare. L’ex senatore torinese del Pci Lorenzo Gianotti, vent’anni fa, scrisse un libro in cui si suggerivano piste alternative alla vendetta di un ex partigiano comunista per i licenziamenti di operai di sinistra in Fiat. Faceva riferimento ad appunti in caratteri cifrati trovati sulla scrivania dell’ingegnere, a minacce ricevute nei mesi precedenti l’attentato e al possibile traffico di segreti industriali con Paesi dell’est. Ma sono rimaste pure congetture. Elena Piaseski è morta nel 1979, senza sapere perché le toccò in sorte di rimanere vedova e di crescere orfana di padre una ragazzina di dodici anni che, fino in tarda età, negli anniversari di aprile ha fatto pubblicare un necrologio che somiglia tanto a quella lettera del ’52: «A papà, con immutato affetto».

YOUTUBE: Il caso irrisolto a Torino: L'omicidio di Codecà