8 febbraio – 1 marzo 1996. 23 giorni. 23 interminabili giorni di angoscia, paura e morte che hanno sconvolto e terrorizzato la popolazione di Merano, un paese della Provincia Autonoma di Bolzano. In meno di un mese 6 vittime, tutte freddate con un colpo d’arma da fuoco alla testa. Vittime casuali, scelte senza alcun criterio logico apparente, uccise mentre passeggiavano in centro città o intente a svolgere le loro attività quotidiane. L’acqua scorre e l’aria profuma di corteccia, nulla si avvicina a Dio come la natura nel suo immobile divenire. Non v’è follia ne odio nel cuore della terra, essi risiedono nell’uomo, nel suo disarmante e incomprensibile. A passi lenti, tra quelle montagne grigie e barbute fatte di pini e mirtilli selvatici, laddove si staglia l’etereo dell’eterno e gli occhi si aprono increduli, vi era un fienile fatto di sassi e legna in cui abitava Ferdinand Gamper.
Uomo di montagna. Faceva il pastore o il contadino a seconda dei periodi, era solitario come un solo filo d’erba nelle vallate rade. Nacque a Caines, a pochi chilometri da Merano, nel 1957 da papà Adalbert e mamma Louise: il primo dimostrò un affetto inappropriato abusando del figlio in innumerevoli occasioni, la seconda fu turbata per tutta la sua esistenza da schizofrenia. La società fu un mondo a parte per Ferdinand, il quale preferì trascorrere parte della sua vita con il fratello Rickard, relegando il fratello maggiore Karl a sporadica comparsa.
Tra quelle valli ondivaghe il lavoro può essere l’unica distrazione, soprattutto in quegli anni ’90, appena sfiorati dalle comunicazioni al fulmicotone tipiche dei tempi odierni: è così che due giovani fratelli cercano un obiettivo, insieme. La, dove un rivo scosceso conduce a valle un fiumiciattolo, su un terreno ricoperto di achillea millefoglie, sorgeva un vecchio maso: è una tipica proprietà fondiaria tirolese, un’azienda agricola silvo-pastorale, composta da un edificio specifico per finalità agricole, un edificio padronale e terreni circostanti. I fratelli Gamper l’acquistano ma i risultati faticano ad arrivare: così Rickard cercherà fortuna in Germania e Ferdinand tornerà alla sua vita di prima.
La psiche di un uomo è spesso insondabile, profonda e prolissa. Cercar di farne un sunto o districarne la matassa è lavoro per pochi. Di sguardi e atteggiamenti tentiamo di farne leggi e soluzioni o appigli per comprendere l’estraneo di fronte e a noi. Così inestricabile era la mente di Rickard, il quale, tornato in Italia, apparirà e svanirà con la stessa velocità del proiettile che si sparerà in fronte. Non saturo di perversione metterà in atto un tragico rompicapo di morte incastrando un coltello alle sue spalle, al di soprà del quale riuscirà a stramazzare dopo il colpo mortale alla fronte. Una morte che sa di penitenza, forse di rito. Nella simbologia suicidiaria un tranello così ben organizzato palesa l’anelo di morte, la concupiscenza della stessa a mo di sacrificio. Esemplare. Un colpo in testa.
Il fratello superstite si rifugerà nel fienile abitabile del defunto padre a Rifiano, riavvicinandosi temporaneamente alla madre malata: trascinata dalla schizofrenia in angusti cubicoli, giocherà a scacchi con visioni e allucinazioni. Sono portato a pensare che proprio questo periodo di vicinanza sia stato fatale nella psiche di Ferdinand: ho la convinzione, non supportata da prove concrete, che in questi anni si sia esacerbato l’odio razziale che lo porterà a commettere i tanto repentini quanto atroci atti in quel mese del 1996.
Privo di cultura, solo e certamente un po’ matto, abbraccerà movimenti indipendentisti e secessionisti di stampo razziale e razzista. Si avvicinerà infatti al gruppo “Ein Tirol” il quale spingeva per l’annessione dell’Alto Adige all’Austria; dal risentimento passerà alla misoginia, al vero e proprio odio per gli italiani: erano Il Male nel mondo, lui, la cura.
Il passato doloroso, i traumi subiti, l’isolamento e i lavori umili implodono bruciando quegli anfratti d’amore e comprensione che ancora pulsavano ascosi allo sguardo. Una corrente venefica spira impetuosa e cerca sfogo: minacciosa e implacabile trova respiro nell’avversione per il popolo del tricolore, dello stivale, della mamma, pasta e mandolino.
Tutto si riversa contro gli italiani, simulacro d’odio e obiettivo contro cui sfogare la propria rabbia.
Scienze come la criminologia, la psicologia e psichiatria forense ci insegnano che laddove si dipinga il turbamento e il dolore sgorghi copioso, nulla si ripara da solo. Il libero arbitrio si palesa nella sua semplice essenza: curare con amore e lacrime o comprimere, tappare e dimenticare scegliendo nuove vie in cui il dolore si tramuta in altro.
Odio, rabbia, disapprovazione e cinismo sono spesso figliastri impazziti del dolore represso: spruzzano come acqua malsana da una fontana ormai in frantumi creando pozzanghere in cui l’uomo possa specchiarsi e vedere un mondo diverso. In Gamper il dolore per gli abusi del padre, il trauma originato dal suicidio del fratello e l’intero suo vissuto rimasero una ferita aperta che continuò così a spurgare un suppurante sentimento d’odio che pervase l’animo e la psiche di Gamper conducendolo a mutare in serial killer.
8 febbraio 1996, Hans-Otto Detmering è tedesco, ha 61 anni ed è un alto funzionario della Deutsche Bundesbank; Clorinda Cecchetti è italiana ed è la sua amante.
I passi riecheggiano senza eco, il silenzio avvolge ombre e respiri: alle loro spalle si avvicina tacito un uomo con abiti e zaino nero coperto da un cappuccio che, fulmineo, estrae un’arma dallo zaino. Ferma l’uomo ponendogli una mano sulla spalla, Otto si gira e un pallettone calibro 22 gli si pianta dritto in fronte. Clorinda, attonita, lo seguirà immediatamente nello stesso destino. I due capicollano a terra, privi di vita, mentre il killer lentamente sparisce tra sbuffi di cirmolo e il rimestare d’acqua.
Le forze dell’ordine passano al setaccio il luogo del delitto immergendosi contemporaneamente nei trascorsi delle vittime: amanti di un amor illecito ma manifesto e rinomato. Una relazione clandestina totalmente alla luce del sole, accettata inoltre dalla famiglia di Otto.
Deposto il movente passionale ci si volge al movente economico: le indagini proseguono per i due giorni seguenti in delitto, quando, presso la stazione dei Carabinieri, si presentò Luca Nobile. Luca è un giovane uomo è senza fissa dimora che dichiara di aver visto un uomo alto, di carnagione scura e guance scavate, niente barba, capelli ricci vestito di scuro, sparare prima alla donna e infine al compagno.
14 febbraio 1996. Merano. Umberto Marchioro è un contadino di 58 anni e sembra morto per una causa accidentale come una caduta. Il foro in fronte è piccolo e viene notato solo durante l’esame del medico legale. Un particolare non sfugge all’attenzione delle forze dell’ordine: Luca Nobile abita proprio a Sinigo, il quartiere del Marchioro; viene quindi interrogato nuovamente e testimonia di non conoscere il contadino ma di essere passato davanti alla sua abitazione proprio nell’ora del delitto.
Approfondite ricerche nella vita del Nobile fanno emergere malcelate verità: conosceva molto bene Marchioro, era in possesso di una calibro 22 e gli viene rinvenuto del sangue sulla giacca. Le porte del carcere si apriranno meste quando alcuni presunti amici rilasceranno testimonianze inequivocabili: viene arrestato con l’appellativo che già gli avevano attribuito. “Mostro di Merano”.
7 febbraio 1996, ore 17,30, Merano.
Fabio Vecchiolini, 32 anni, passeggia nel centro di Merano con la compagna Yvonne Sanzio, 36 anni. Un proiettile trafigge l’aria come ferale saetta e fende Fabio al centro della fronte; Yvonne reagisce: non vuole finire come bestia da cacciare e fugge spedita. La, dove un proiettile avrebbe potuto toglierle la vita, si stampa l’immagine del killer: è esile, dal viso magro e allungato, ha una barba incolta, capelli biondi e stempiato, occhi incavati. Ha circa 40 anni e sembra di Merano.
Qualcosa non va: un lieve sospetto, che fino al giorno prima si confondeva tra supposizioni, acquista l’irruente forza della certezza. Su Luca Nobile forse si è commesso un errore, lui dal carcere urla la sua innocenza ma la gabbia resta chiusa: troppo presto, troppe coincidenze, così il PM non lo rilascia. L’identikit fornito da Yvonne è completamente differente e arriva tra le mani della pubblica sicurezza con la velocità del vento di bora. Subito circola in una Merano nuovamente basita:
“ma quello è Ferdinand!”.
A pronunciare queste parole è un barbiere, compagno di classe di Ferdinand Gamper. Lo conosce, non parla nemmeno italiano; è un solitario e odia gli italiani. La testimonianza del barbiere viene dichiarata inattendibile. Peccato.
Il caso è estremamente complesso: vittime di età, ceto sociale, sesso, interessi completamente differenti tra di loro. Senza nessun legame, senza nessun movente apparente. Semplicemente erano tutti italiani a parte Otto, tedesco, ma al momento del fatto parlava italiano con la sua amante.
Dubbi e incertezze che fino a quel momento avevano fatto da contenitore a un vibrante senso di terrore svelano una ineffabile concretezza: gli abitanti di Merano perdono il controllo, si chiudono in casa, corrono per strada guardandosi le spalle. Il criminologo deve fungere da contenitore sociale e fornire risposte, farsi carico di questo senso di vulnerabilità e riportare le vittime indirette del reato su un piano di realtà, lontano dal panico interiore.
Le prove parlano, il modus operandi è un rituale simbolico pregno di significati: uccide senza contatto con le vittime, le sceglie a caso, è veloce e sa sparire tanto da sembrare invisibile. Conosce quindi il luogo talmente bene da svanire e passare inosservato, dettaglio che conduce a formulare una ipotesi sulla sua bassa integrazione sociale. Uccide a caso o per una caratteristica che accomuna le vittime di origine reale o frutto della psiche. Non prova alcun rimorso per l’atto, spara un proiettile alla fronte per ottenere una morte immediata e non la sofferenza della vittima; ha dimestichezza con le armi. La sua lontananza dai bersagli emerge immediatamente; un distacco mentale e fisico, quasi ribrezzo. Non vi sono dettagli che lo interessano, come mani, occhi o capelli, non si accanisce sulle vittime, nessun souvenir: non le conosceva. Sembra una esecuzione o una punizione, ma la seconda alternativa premetterebbe un legame con le vittime. In questi casi il movente può essere politico, etnico, razziale.
1 marzo 1996. 9,30 Rifiano.
Tra i filari di mele, lungo una scoscesa salita si staglia un fienile, il basamento in pietra e la parte superiore in legno. Dall’interno, spavaldo, ne esce l’inquilino, Ferdinand Gamper, che attraversa un tratto di prato per entrare nella proprietà della famiglia che risiede li accanto.
Tullio Merlchiori è uscito in ciabatte a prendere il giornale: la moglie sente lo sparo ed esce. Lo vede a terra, Ferdinand li osserva entrambi e se ne va. A terra un messaggio scritto a penna: “sono un italiano immigrante responsabile di infanticidio, ancora una volta siete arrivati tardi”. Su un piccolo cespuglio di aconito viola, schizzi di sangue fresco colano lenti.
Gli eventi si susseguiranno a un’estenuante, frenetico ritmo: Gamper si asserraglia nel suo fienile, elicotteri e sirene della polizia spaccano quella eterna quiete. Viene immediatamente circondato: è lui il mostro di Merano.
Il maresciallo Guerrino Botte dirige le operazioni; si muove per primo, scoperto. Alcuni brevi, ultimi giorni lo separano dalla meritata pensione che un proiettile tra gli occhi non gli permetterà di godersi mai. Preciso come un cecchino, il killer ha mietuto la penultima vittima: un fumogeno schiva i dardi metallici che sibilano invisibili e letali entrando nel fienile che prende fuoco. La scena è impressionante, Gamper asserragliato nell’edificio che brucia come paglia spara l’ultimo colpo rivolgendo la vecchia carabina contro sé stesso. Venti minuti di attesa e gli specialisti del U.A.C.V., l’unita di analisi del crimine violento, sfondano le crepitanti porte dello stabile trovando Ferdinand riverso a terra, morto con un colpo in fronte.
Pochi giorni dopo, alla funzione del suo funerale, saranno presenti una bara e un prete.
Una vicenda di confine, quasi sconosciuta in Italia e dalla grande risonanza in Germania e Austria, probabilmente a causa delle tinte razziali ci cui è permeata. Luca Nobile sarà chiaramente scarcerato dopo l’evento finale nonostante i tanti dubbi rimasti aperti circa la sua testimonianza.
Il suicidio del killer rende impossibile avvalersi di testimonianze o atti processuali. Questo obbliga il criminologo a mettere in atto una autopsia psicologica, un’analisi post mortem tesa a dipanare quanti più dubbi possibile. Ferdinand Gamper fu un assassino seriale classificabile come “missionario”, che porta genericamente a termine un compito mosso da moventi razziali, politici, etnici, religiosi. Fu quasi certamente mosso dall’odio verso gli italiani, tali erano le vittime che, come già rilevato in precedenza, non avevano nulla in comune tra loro se non la provenienza; l’assenza di prove è proverbialmente una prova stessa e permette di concentrare un cono di luce sulle uniche alternative. Il soggetto è disorganizzato, appartenente a una classe sociale non elevata e privo di cultura; commette i crimini in un luogo perfettamente conosciuto e vicino casa, non ha un’auto o un lavoro stabile.
Varie fonti:
Monografie seriali: Ferdinand Gamper, sei spari nel silenzio.